Sembrerebbe
un’opera scritta, contemplando i giochi di
luce che una candela, consumandosi, crea
sull’animo di un uomo che riflette sulla
condizione umana e sulla funzione della
poesia, ed essa è in realtà l’ultima
pubblicazione di Giuseppe Rosato: “L’inganno
della luce”, aggiudicatosi il primo premio
di vincitore assoluto della XXIV edizione
del premio letterario “Città di Penne” per
la sezione di poesia edita.
Un’opera che sembra vivere di toni
chiaroscurali nella netta contrapposizione
di ciò che è luce e ciò che è tenebra, ma
che a differenza dei comuni stereotipi
tendenti ad una totale identificazione degli
elementi binominali ragione-luce, vuole
invece demistificare tale coppia, rendendola
al contrario nettamente oppositiva. Non c’è
nulla della luminosa bellezza delle cose,
che non riveli la propria miserevole
caducità, confluendo inevitabilmente nel
baratro del suo buio antagonista. E tuttavia
la secolare accezione negativa che al buio è
da sempre stata ingiustamente attribuita,
qui viene logicamente smontata attraverso un
processo di composizione poetica, che vuole
ragionevolmente negare l’ingannevole
apparenza della luce: «[…]l’inganno della
luce non ha niente / della sincerità del
buio, / […] così nel vuoto può albergare il
nulla / e non vestirsi delle consistenze / a
cui dà vita il pieno, povera / vita a
termine che spoglia / presto la morte e
riconduce al nulla / […]». Niente di quello
che da sempre si è voluto credere reale può
esserlo ancora, se i giochi e gli scherzi
che la luce si diverte a creare sono in
realtà mistificatori e portatori d’inganno.
Viene invece riscattato ciò che è ombra,
buio, giacchè solo quest’ultimo può salvarsi
da un’apparenza che non smette mai di mutare
con l’inganno della luce, e che infine può
ricondurre all’unità ed alla certezza. «[…]
chi muta è il solo che tu vedi / non
guardandoti indietro / ma dritto a te
davanti nello specchio / e a quello devi
credere che invece / è il meno vero,
cangiante, già cambiato / ogni volta che
torni a guardarlo / […]».
Quella di Giuseppe Rosato è una poesia che
indaga se stessa attraverso la sua funzione,
procedendo dal dubbio e dalla distruzione di
un luminoso e consolante postulato di
verità, e che ritorna infinite volte su di
sé per bloccare in un verso una sostanza che
sfugge alla verità sotto l’inganno di una
luce ingannatrice: «[…] scrivo e riscrivo
innumerevoli volte / lo stesso verso […] ma
la sostanza sempre si sottrae / al
sostantivo in cui dovrebbe inscriversi, /
vuoto me ne ritorna un suono / che non ha
avuto forza di consistere / […]».
Si avverte quasi vivamente il senso di
disfatta di un poeta che percepisce
sensibilmente la dicotomia tra due mondi –
luce e buio – e che nella poesia cerca una
soluzione di continuità tra essi, pur
mettendo in pericolo la sua stessa funzione,
unica sicurezza che rende possibile la
riflessione di ciò che pure si è negato
all’evidenza. L’ineffabilità di un
ricongiungimento agognato e tuttavia mai
reso possibile, diviene del resto un motivo
di riflessione sull’ignara condizione
d’illusorietà in cui versa l’intera umanità,
a partire dai primordi: «[…] pensate Adamo
come s’annoiava / senza un pensiero senza
una scadenza / senza un figlio da crescere
una donna / da amare un genitore da
collocare / in una casa di riposo. Ma
pensare, / pensare a che cosa se non c’era
pensiero / che gli desse pensiero, aspettare
/ da dove novità, quale notizia / di cui
gratificarsi. E gli alibi / contro l’ombra
di morte, il senno / che bruci a quell’idea
del nulla. / Niente, che vita è questa, si
disse. / Decise allora di morire, o meglio /
di acquisire il diritto di morire. / Mangiò
la mela, sereno, stendendosi / su un letto
di foglie di fortuna / ed attese l’effetto.
Ci vorrà un po’ di tempo, / gli sussurrò la
spacciatrice adagiandosi / di fianco a lui,
evitando l’overdose / si andrà sicuri quanto
basta / per uscirsene via nell’arco giusto /
di tempo che chiameranno gli uomini vita, /
un battito di ciglia al confronto del tempo
/ che qui avremmo avuto da soffrire […]».
La sofferenza si fa dolore lancinante nella
sua acutezza e nella scelta di morte che
l’uomo decide di arrogare per sé,
sostituendo con la brevità di una vita
mondana il dono di un’eternità rifiutata con
la noia del tempo infinito ch’essa avrebbe
comportato. Ecco allora che si assiste alla
personalizzazione del dolore, nella ricerca
dell’unico mezzo che potrebbe rendere
giustizia ad una tale miseranda esistenza di
luminoso inganno: è il canto del poeta, che
può trasformarsi in relativa soddisfazione
nella versificazione che cerca la verità,
innalzandosi oltre la dicotomia – luce/buio
- del dolore che l’aveva prodotto. Eppure
anche così si percepisce chiaramente la
totale assenza di un’efficace risoluzione in
grado di portare ad un punto d’equilibrio,
se ancora leggiamo: «[…] ma a chi finge il
poeta fingitore / non lo dice Pessoa. Finge
a se stesso? / Finge di farsi un peso
dell’enorme / pena del mondo, si arroga / il
privilegio di soffrirla e ne fa intanto / il
luogo del suo triste abbecedario. / Finge il
poeta, finge di guardare / oltre le cose che
si vedono, ma a sé / l’inganno, a sé prima
che agli altri / la ben trovata parola
bugiarda / che non risolve, che non può
risolvere, / lascia tutto com’era […]». E’
la disfatta finale, ineffabile, contro la
quale neppure la poesia, da cui anche era
nato l’inconsolabile dubbio dell’inganno
della luce, può più nulla. Resta solo la
consolazione dell’appagamento che la poesia
può donare al suo fedele servitore, se il
dolore, cantato in versi di sconfinata
sofferenza, può regalare un relativo
appagamento da tanto marasma di sconsolata e
tenebrosa luminosità.
Anna Di Giorgio
“L’inganno della luce”
Giuseppe Rosato
Book Editore – poesia - € 10.50
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