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diretto
da Guerrino Mattei
eventi
VILLALAGO
(AQ)
-
CONVEGNO DI PEDAGOGIA A CURA DELL'A.I.M.C.
XIX “Luigi
Volpicelli” 2015
(L'identità territoriale nella dimensione
educativa europea)
“Limiti educativi di
un viaggio di solo andata”
relazione di Enea Di
Ianni
presidente
dell'Associazione Italiana Maestri Cattolici
Sede Corso
Ovidio 108 - Sulmona
“Un nonno per strada non sa dove andare,
cammina da solo. Nessuno lo vuole.
Speriamo che in sogno qualcuno ci sia
in sua compagnia.” ( Lorenzo Mannella classe 5°)
Foto di Remo Lucantoni
***
Presenti
fra i relatori ci è stato modo di apprendere dai docenti
interessati all'educazione pedagogica dell'infanzia non
le tecniche didattiche per arrivare ad avere un buon
apprendimento e un armonico sviluppo del fanciullo ma il
cuore e l'abnegazione che gli insegnanti di ogni ordine
e grado mettono nella scuola considerando l'insegnamento
non un professione ma una missione morale per costruire
risorse
sociali,
pronte per il mondo del lavoro e per una continuità
all'insegna della pace e della concordia fra i popoli.
Abbiamo fra
le altre relazioni sentito ed ascoltato attentamente la
parola del presidente dell'A.I.M.C. (Associazione
Italiana Maestri Cattolici) dott. Enea Di Ianni, per
lunghi anni direttore didattico, e ci sembra doveroso
riportare a chiusura il suo intervento in toto, con la
sua firma, come fosse un documento inviatoci per tenerlo
in archivio e ogni qual volta necessitasse confrontarlo.
Un grazie a
tutti i relatori, nessuno escluso, che hanno portato
"luce nella notte del disorientamento sociale" con
parole di saggezza e di umanità, a sorreggimento di
un'infanzia che nell' "Identità territoriale nella
dimensione educativa europea" deve trovare raffronto e
integrazione.
Il convegno si è svolto nella sala consiliare del
Comune di Villallago, gentilmente concessa dal sindaco
Fernando Gatta e la parte finale al ristorante Tana
dell'Orso, gestito dall'artista Sabina Iafolla e dal
fratello Giancarlo.
***
Relazione di Enea Di Ianni
Il
Convegno di Pedagogia “Luigi Volpicelli” del 2008
aveva questa tematica: “Incontro, Confronto, Alleanza”,
tre termini accostati non casualmente, ma volutamente
per sintetizzare il senso della vita - individuale e
collettiva - e racchiuderlo in un processo sempre in
fieri, in costruzione continua proprio come
l’educazione. Un viaggio psico-fisico e socio-culturale
che ci fa essere quel che siamo di volta in volta: “uno,
nessuno, centomila”, tante sfaccettature da ricomporre
in unità per poter essere compresi davvero.
“La
storia di ogni essere umano”, dicevo allora, “s’avvia
da un incontro – casuale o forse no – che può, poi,
continuare e svilupparsi in un confronto, pacato o
eccitante, ed infine nell’intesa, la sentimentale
alleanza che avvia un progetto di vita sempre nuovo, sempre
diverso”. Mi appariva chiaro e perfino scontato il
parallelismo con i processi di crescita, con i percorsi
educativi:
“La
storia di ogni essere umano è come la storia di ogni
processo di crescita, di ogni percorso educativo: incontro,
confronto, alleanza… Complice, nell’un caso o nell’altro,
l’occasione”.
Alla
luce di quel Convegno, il tema di quest’anno -“L’identità
territoriale nella dimensione educativa europea”-
sembra quasi un approfondimento del tema del 2008, un
approfondimento alla luce di ulteriori fatti e accadimenti,
positivi e negativi.
Ci
stiamo chiedendo, quest’anno, se nel viaggio psico-fisico e
socio-culturale-sentimentale che ci apre alla dimensione
europea dobbiamo buttare via la “valigia di cartone”
legata con lo spago e dotarci di un troller e, ancor
più, se dentro la “valigia di cartone” o nel
troller dobbiamo collocarvi tutti una stessa
oggettistica: identica, omologata e rispondente a
prescrizioni comuni.
L’idea
della valigia di cartone genera emozioni, quella del
troller dà sicurezza e agilità; il problema però, più
che riguardare i contenitori va riferito semmai ai contenuti
– se identici o differenziati - e all’idea di viaggio:
solo andata o andata e ritorno?
La
storia della nostra gente, quella stessa del paese dove
stiamo celebrando questo Convegno, conserva tantissime
tracce di viaggi umani: una peregrinazione per tanti versi
predestinata già dalle caratteristiche socio-orografiche di
questi luoghi caratterizzati da inverni lunghissimi, estati
brevissime, pochezza di risorse naturali.
Che
fare con una campagna povera e con tanti paesaggi pietrosi?
E
allora i nostri padri si fanno abili muratori, “costruttori
di muri”, ingegnosi artigiani e, come tali, si attivano
in peregrinazioni all’interno e all’esterno dello
stivale.
Da
sempre per noi l’Europa ha coinciso col “fuori Villalago”
e si è differenziata dall’America, dall’Australia e dal
Venezuela solo perché, annualmente, da “fuori Villalago”
si poteva tornare a casa e lo si faceva per lo più per il
Natale.
Che
poi il “fuori Villalago” si chiamasse Navelli,
Campagna romana, Puglia, Belgio, Francia o Svizzera diceva e
contava poco.
Quando
da quei viaggi si tornava, famiglie e paese erano in festa,
una festa che coinvolgeva tutti: parenti, amici, conoscenti
e per tutti c’era un ritorno, magari un pacchetto di
sigarette, una cioccolata, un profumo, un accendino o delle
semplici “pietrine”.
A dire
il vero in paese nulla si faceva di importante in assenza di
quei “migranti” ad eccezione della festa patronale di
agosto che, comunque, in altra forma, la si ripeteva a
gennaio.
Tra
dicembre e marzo accadeva di tutto: si uccidevano i maiali,
si celebravano i matrimoni, si ufficializzavano i
fidanzamenti, si annullavano vecchi rancori ed anche, e non
di rado, si provava a tessere legami d’amore tra ragazze del
posto e ragazzi di fuori, quasi sempre amici dei
migranti nostrani.
Due i
termini ricorrenti per definire la gente con la quale si
entrava in rapporto: paesana o forestiera,
cioè del paese o di fuori paese. Qualche volta la
distinzione si faceva, a seconda della convenienza, più
sottile e così si avevano i “forestieri forestieri”
e i “forestieri dei paesi vicini”.
Comunque, al di là delle sfumature linguistiche, l’essere
paesano costituiva di per sé un vantaggio, un requisito in
più a prescindere (vedi “Moglie e buoi dei paesi tuoi”).
I
viaggi “fuori Villalago” erano viaggi di andata e
ritorno, con tempi diversi di soggiorno (9/10 mesi
fuori, 2/3 mesi a casa) e che contribuivano a
ingentilire abitudini, educare comportamenti,
migliorare stili di vita oltre che arricchire il
linguaggio e qualificare le professionalità.
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Degli
altri viaggi, quelli “fuori Europa” per intenderci,
tanti… troppi furono davvero di solo andata. Tanti
giovani partirono appena sposati e non tornarono mai più;
tanti altri giovani partirono anch’essi appena sposati
lasciando la compagna in felice attesa e tornarono solo dopo
40/50 anni, da anziani, felici, sì, di poter apprezzare il
frutto del proprio lavoro e dell’avvedutezza amministrativa
della propria compagna (magari una bella dimora con tutti
i confort e un fiorente libretto postale), ma
assolutamente incapaci perfino di riconoscere “de visu”,
tra tante donne, la propria consorte.
Pochi,
davvero pochi, scelsero viaggi di andata e ritorno
cadenzati, a intervalli magari triennali o quinquennali e
furono quelli che accesero in paese sogni di emigrazione e
ambizioni di benessere socio-economico.
C’erano, allora, alcune costanti che, al di là del
peregrinare, rimanevano solidamente condivise. C’era una
precisa idea:
- della
vita
catterizzata da “solidarietà di generazione e di tempi”,
- della
casa
intesa
come “fiato della famiglia… l’ambiente dal quale
traiamo gli alimenti più nutrienti per la nostra vita
spirituale e nel quale proiettiamo e affermiamo noi stessi”(101),
- della
famiglia,
dell’educazione familiare percepite come “vita
segreta… segreta di fronte al mondo… vita spirituale e in
costume…”,
-
della scuola
che, al di là di aggettivazioni di sorta, era luogo
dell’educazione “…istituzionalizzato e formale, col suo
cammino tutto precisato, le sue tappe d’obbligo, i suoi
controlli”(101),
- dell’attività
educativa:
un’arte, “arte che è frutto di conoscenza e di intuito,
ma che si realizza, poi, per un’intima vocazione, proprio
come accade al poeta con la poesia ed al pittore con il
quadro”(114-115),
- dell’esempio
assolutamente indiscutibile come “continuità razionale ed
affettuosa del comportamento educativo degli adulti”
(123),
-
del
gioco:
mezzo “per eccitare, per acuire l’osservazione…”, per
esprimere e vivere la propria vita (50), ma anche come
“specchio delle lotte che ci attenderanno domani…”(48),
mezzo per scoprire noi stessi e colloquiare interiormente
(48),
- del
desco familiare:
“… occasione felice per stare insieme, genitori e figli,
e godere il dono della famiglia…”, “ristoro e pausa
della faticosa giornata vissuta per intero fra uomini di
<questo mondo>” (10),
- degli
usi e delle tradizioni:
le ritualità ripetitive che ti fanno sentire parte
essenziale di un gruppo in un luogo, che ti danno i crediti
per appartenere a quel gruppo e a quel luogo e ti
consentono di riconoscere e farti riconoscere.
Siamo
usciti o stiamo uscendo dal guscio di noce che è Villalago,
l’Abruzzo, l’Italia e la destinazione è il villaggio
globale, un mondo piccolo e perciò “villaggio”,
facilmente percorribile in lungo e in largo in tempi
brevissimi.
All’interno di questo piccolo mondo le distanze, fisiche e
culturali si annullano e gli stili di vita, le tradizioni,
le lingue, le etnìe diventano internazionali.
Non ci
sono più confini: c’è una progressiva crescita delle
relazioni e degli scambi e c’è, o dovrebbe esserci, anche
una convergenza economico-culturale tra i Paesi del mondo.
Non ci
sono più certezze: “La seconda modernità”, come
sostiene il sociologo tedesco Ulrich Beck (“I rischi
della libertà – l’individuo nell’epoca della globalizzazione”,
un volume suddiviso in sei saggi, edito la “Il Mulino”, BO,
nel 2000)
“è
una società del rischio generalizzato dove nulla, dal lavoro
alla famiglia, è più garantito”.
Ciò
che caratterizza questa seconda modernità è “…un
processo… di individualizzazione della società che dissolve
le forme di vita tramandate ed i concetti tradizionali di
appartenenza ad una classe sociale, nazione, ecc.”
La
libertà è diventata “assenza di vincoli” e ciò
sta rendendo tutto incerto e rischioso; viviamo tra “libertà
rischiose” e sono a rischio, insieme a noi, “Dio,
natura, verità, matrimonio, scienza, morale” ed io
aggiungerei anche giustizia.
Di
fronte a ciascuno di noi il rischio/certezza della “dissoluzione
delle forme di vita sociale tradizionali” (classe,
ceto, famiglia, scuola, chiesa, paese...) e, in
aggiunta, l’incombenza su ciascuno di noi di nuove
pretese istituzionali, controlli e costrizioni.
Quello
che appare con sempre maggiore chiarezza è che l’individuo “è
costretto a mettersi alla prova”, niente può essere dato
per scontato, tutto deve essere deciso e comporta
continuamente assunzione di responsabilità (fecondazione
artificiale, eutanasia, donazione di organi…).
Tutto deve essere scelto e deciso e non una volta
per tutte, ma in continuo.
Siamo
di fronte ad una scelta: obbligata? O tutto diventa “Villalago”
o tutto diventa “fuori Villalago”?. E chi lo decide?
Le imprese transnazionali? E noi restiamo inermi e
passivi o, invece, come individui organizzati ci
mettiamo alla prova e cominciamo a decidere assumendoci
precise responsabilità?
Cominciamo col chiederci se l’identità
territoriale è un corredo di cui essere fieri
o piuttosto un fardello di cui vale la pena
disfarsi; proviamo a definirla educativamente
questa identità territoriale, a coglierne l’essenzialità, la
specificità e i contenuti da privilegiare al di là dei
tempi, dei luoghi e delle mode.
E’
fuor di dubbio che dobbiamo viaggiare, non possiamo rimanere
fermi all’interno del villaggio globale. “Fuori Villalago”
dobbiamo andarci e dobbiamo essere pronti agli “incontri”,
ma equipaggiati di quel che serve per essere se stessi
sempre.
Viaggio di solo andata? Senza ritorno?
Il
non ritorno vuol dire mancanza di narrazione del visto e
fatto, del vissuto altrove; vuol dire nessuna
contaminazione linguistica… (francesismi, inglesismi…),
nessuna accensione della curiosità altrui, nessuna
evoluzione; vuol dire nessuna contaminazione
agro-alimentare, di coltivazioni e cucina… ( l’arrivo
della patata, del mais, la pasta amatriciana, le crèpe…);
vuol dire nessun cambiamento di stile e modi di vita…
(telephone, bidet non come contenitore di prezzemolo);
vuol dire nessuna evoluzione nei comportamenti… (Alberto
Sordi nelle vesti di emigrante in Australia… una fila
d’uomini per una sola donna: “Abballi?”)
Il
non ritorno sarebbe, è una grave perdita,
forse più di un lutto, perché non ci consente di
interiorizzare il ricordo, di fermarlo come immagine e
addolcirla poco per volta coniugandola e contaminandola con
gli altri luoghi della memoria.
Il “ritorno”
però è possibile se nell’andata siamo stati ben
equipaggiati, intendo dire “individualizzati”
nell’essenzialità, nelle cose che contano, che valgono e che
durano.
E’
importante la lingua, ma ancor di più conta la
voglia di comunicare; E’ quella che dobbiamo accendere.
è’ importante la religione, ma ancor di più conta
la capacità e la volontà di essere solidali; è
importante il “pezzo di carta”, ma ancor più conta
quel che c’è dietro il pezzo di carta in termini di “saper
fare” (Accendere, Sostenere, Preparare)
E’
importante quello che si ha, una buona carta di credito, ma
ancor di più conta quello che “si è”
davvero e sempre e che non si fa fatica a rendere palese
agli altri. Non il curricolo, ma il comportamento.
Voglia
di comunicare, volontà di solidarietà, saper fare e saper
essere cosa sono se non i termini di una “identità”
reale e non fittizia? Cosa vogliono essere se non il
bagaglio da collocare dentro una possibile “valigia di
cartone” o in un troller nel momento in cui si
avvia la migrazione verso altri, luoghi o persone che siano?
Non è
la lingua che unisce, o almeno non è solo la lingua. A unire
sono la vicinanza fisico-affettiva, sono le
condivisioni di sforzi e fatiche comuni per superare
ostacoli, sono quei momenti ricreativi vissuti al
termine di camminamenti difficoltosi, sono i giochi,
le sane competizioni sportive, sono i sapori delle
cose genuine della propria casa, le emozioni racchiuse in un
canto corale o in una melodia ascoltata con altri.
…
Chiesi a mio padre come avesse fatto a intendersi con i
francesi prima e gli americani poi nel suo essere emigrante,
come fosse diventato amico loro durante gli anni
dell’emigrazione.
“Lavorando fianco a fianco con essi, dando loro una mano
quando avevano bisogno e chiedendogliela io nel bisogno. A
volte condividendo dei sogni!”
Enea Di Ianni
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