Quando si dice da più parti che il teatro è morto e che
la penuria di testi rende sempre più "devastabili" quelli
classici, in parte è vero. Come è pur vero che mancano
idee e che i giovani autori spesso "aspettano" di vedere
cosa propone il mercato delle innovazioni.
Nel caso della bellissima, drammatica quanto poetica
messa in scena di "Ogni volta che guardi il
mare" di scena al Teatro Lo Spazio di Roma, è bastato
che l'autrice Mirella Taranto ricorresse ad una
storia vera, alla vicenda di una madre che per difendere
l'integrità morale della figlia diventa collaboratrice di
giustizia e poi martire di quella giustizia stessa che
l'ha abbandonata, offrendo a lei e alla figlia protezione
alterna perché il sistema l'ha voluta poco credibile.
La vicenda è arcinota. Tutti i mezzi d'informazione
dell'epoca ne hanno parlato. Lea viene uccisa dal marito al quale
finalmente si è aperta la cella del
carcere. Il coraggio della figlia, nel testo di nome Sara,
ha saputo riscattare la madre facendo aprire un processo per
omicidio.
L'ambiente è quello calabrese con le sue regole e le sue
assurde consuetudini, ove l'omertà e la religione si fondono
in una specie di sacralità che rende l'assassinio cosa
normale, degno dell'inchino della madonna davanti alle case
dei mafiosi durante la processione paesana.
Federica Carruba Toscano è eccezionalmente brava.
L'accento più siciliano che calabrese la universalizza,
testimone di un'Italia ove la giustizia è quella
locale, quella imposta da anni di contraddizioni e
sottosviluppo.
L'adattamento e la regia di Paolo Triestino riescono
a dare alla vicenda connotati di una liricità eccezionale e
il testo "inchioda" lo spettatore fino alla fine in religioso
silenzio.
Applausi più che meritati chiudono il sipario.
Guerrino Mattei
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